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L’hanno chiamata “Aspromonte Emiliano”, per segnalare forse la forza combinata delle due regioni. La recente indagine di competenza della DDA di Bologna (sostituto procuratore Roberto Ceroni) contesta a 37 indagati su 45 l’associazione criminale finalizzata al narcotraffico e ad accomunare la maggior parte di loro sono le terre d’origine (Calabria) e quelle di residenza (Emilia-Romagna). Due regioni tra le quali, almeno dal 2019 al 2021, scorreva un’autostrada virtuale dedita al trasporto della droga per quantitativi e valori inimmaginabili. L’organizzazione è stata capace di movimentare, gestire e distribuire, in meno di due anni, più di una tonnellata di cocaina, oltre quattro quintali di hashish e un quintale di marijuana. Dato il prezzo della cocaina al consumo, che oscilla tra gli 80 e i 100 euro al grammo, il valore commerciale della sola polvere bianca supera i 100 milioni di euro.

Quell’autostrada su cui viaggiavano la droga e soldi che generava ha unito Reggio Calabria a Reggio Emilia grazie alla capacità criminale e alle relazioni internazionali del leader indiscusso dell’organizzazione: Giuseppe Romeo Maluferru, detto anche U’Nanu. È figlio di Antonio Centocapelli e nipote di Sebastiano, il capo storico della ‘ndrina di San Luca. Romeo trattava direttamente con alti esponenti della criminalità colombiana, brasiliana, boliviana ed ecuadoregna l’acquisto della merce. Trattava direttamente la rivendita con le potenti cosche della sua Calabria, ma anche con i Casamonica, la mafia albanese e le ‘ndrine lombarde. Comprava e rivendeva container di droga destinati ad approdare a Rotterdam dopo la traversata oceanica o al porto di Gioia Tauro, dove l’ultimo sequestro effettuato dalla DDA di Reggio Calabria nel maggio scorso ha portato alla luce trenta quintali di cocaina purissima nascosta tra 12 tonnellate di banane.

Giuseppe Romeo gestiva gli affari dalla Spagna dove viveva latitante dal 2018, senza vincoli che non fossero l’arricchimento personale e dei fedeli compagni d’avventura, ora in galera assieme a lui. Toccava a loro prelevare la droga in Calabria, trasferirla in Emilia-Romagna, nasconderla nei depositi della pianura reggiana, in attesa di soddisfare la domanda dell’intero e ricchissimo nord Italia. Uno di questi magazzini, a partire dal 2021, era un anonimo casolare a Campagnola Emilia (RE) di proprietà dell’ex carabiniere Costanzo Sanna, residente a Reggiolo, che “accetta con entusiasmo”, dicono gli atti, la nuova attività.

La sede dell’azienda era dunque Reggio Emilia. Dei 190 capi di imputazione contestati alla fine delle indagini ben 125 fanno riferimento a reati commessi in Emilia-Romagna e dei 37 accusati dell’associazione criminale 14 risiedono nella città del Tricolore. La provincia che ha subito la forza del sodalizio mafioso dei Grande Aracri e Sarcone, incastrato dal processo Aemilia, era anche il centro nevralgico di smistamento della droga di provenienza sudamericana. “Il primo nucleo dell’associazione si riscontrava a Reggio Emilia tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020” dice l’ordinanza di custodia cautelare, ma i rapporti storici tra Giuseppe Romeo e i promotori della provincia emiliana (Pietro Costanzo di Quattro Castella, Giuseppe Cistaro di Sant’Ilario, Francesco Silipo di Gualtieri) risalgono a tempi più lontani. Silipo e Cistaro si recano in Spagna ad incontrare Romeo durante la sua latitanza e a documentare uno di questi incontri a Barcellona, nel novembre 2019, è per ironia della sorte la denuncia che Rosamaria Oliviero, moglie di Cistaro, presenta alle autorità spagnole quando le rubano la borsetta. Quattro mesi dopo sono Costanzo e Silipo a raggiungere Romeo per chiudere l’accordo di un acquisto di 30 chili di cocaina al mese per un anno, al prezzo di 29mila euro al chilogrammo. Fanno 10 milioni e mezzo in un solo botto e in quella occasione, dicono gli inquirenti, Silipo viene battezzato da Romeo diventando il numero due dell’organizzazione quando Pietro Costanzo finisce in galera.

Francesco Silipo è conosciuto con diversi soprannomi: Ballocco, Quattr’occhi, Bastarda Galera. È nato a Crotone nel 1988 ma risiede a Gualtieri, sulle rive del Po, assieme al suo fedele aiutante Gennaro Lonetti, altro arrestato come membro di spicco dell’organizzazione. Francesco aveva un fratello di nome Salvatore, ucciso nell’ottobre 2021 con un colpo di pistola alla testa nell’officina Dante Gomme a Cadelbosco Sopra, in provincia di Reggio. Aveva 29 anni. Gli sparò Dante Sestito, il titolare dell’azienda presso la quale Salvatore lavorava, con una 44 Magnum rubata. All’omicidio assistette anche Francesco, che riuscì a scappare prima di fare la fine del fratello. Dante sparò alla presenza del proprio figlio Antonio Sestito, allora agli arresti domiciliari perché considerato un capo dell’organizzazione criminale dedita alla falsa fatturazione sgominata dall’indagine Billions, che ha portato alla denuncia di 193 persone. Anche la vittima, Salvatore Silipo, operava nel campo del commercio della droga. Era finito agli arresti domiciliari nell’aprile del 2020 quando i Carabinieri avevano trovato nel suo garage a Santa Vittoria (RE) un laboratorio per il taglio della cocaina.

Quell’omicidio fu dunque un brutale regolamento di conti tra pezzi da novanta della criminalità radicata a Reggio Emilia e due degli indagati di oggi, Gennaro Lonetti e Ottavio Sirto, in una telefonata a cadavere ancora caldo, rimproveravano a Francesco di essere andato all’appuntamento nell’autofficina senza la pistola che si vantava “di avere sempre a portata di mano”. E si chiedevano perché non li avesse avvisati: “Per le minchiate parli, per le cose serie le tiene nascoste”.

L’organizzazione emiliana del narcotraffico era guidata da professionisti del settore, efficienti, esperti. In grado di dialogare attraverso chat crittografate grazie al software canadese Sky Ecc, che li ha fatti lavorare tranquilli fino a quando l’Europol è riuscita a scardinare il sistema nell’ennesima tappa della guerra tecnologica tra crimine e anticrimine.

Ma era anche una organizzazione capace di ricorrere alla violenza e alla brutalità per affermare e difendere i propri interessi. Di ammazzare e sequestrare persone per i soldi, contando anche su di un discreto arsenale di armi che emerge dai relativi capi di imputazione. Nell’agosto 2020 Giuseppe Giorgi manda a suo zio Fortunato, responsabile della distribuzione di droga nel Lazio, l’immagine di una apparecchiata sul tavolo della cucina. La Guardia di Finanza ha identificato sette mitragliatori AK-47 e due Imi Uzi capaci di sparare 600 colpi al minuto, una pistola, due silenziatori, serbatoi e munizioni.

Ma il carico di violenza di cui erano capaci questi personaggi emerge anche senza le foto delle armi. Sono sufficienti le intercettazioni decrittate.

A fine gennaio 2020 Giuseppe Romeo tratta l’acquisto di 330 chilogrammi di cocaina per conto di un gruppo criminale albanese operante in Belgio al quale, come garanzia dell’affare, affida un proprio cugino fino al buon esito della consegna. A vendere è un cartello brasiliano che ha nel proprio libro paga doganieri e operatori portuali in grado di duplicare i sigilli delle autorità sui container per poterli aprire dopo i controlli e inserire la droga tra la merce lecita. A loro Romeo ha già versato 450mila euro di anticipo. Il carico è in partenza dal porto di Callao in Perù e gli addetti alla spedizione assicurano: “Imbarcata e fuori dalle acque nazionali”. Ma qualcosa va storto, perché i container vengo sequestrati dalle autorità sudamericane prima che la nave molli gli ormeggi. Scoppia un finimondo che dura almeno quattro mesi, con minacce di guerra e di morte tra le organizzazioni coinvolte. Gli albanesi in Belgio tengono in ostaggio il cugino di Romeo; gli italiani tengono a loro volta in ostaggio l’uomo di fiducia del venditore sudamericano chiamato Super, i produttori brasiliani della cocaina intimano agli addetti alla vendita di restituire l’anticipo: “Super! Restituisci i soldi sennò già sai cosa succederà, ci ammazzeremo tutti. Perché TU hai confermato che il carico stava sopra la barca, figlio di puttana! Sei stato tu che hai preteso i soldi, il compito di fare uscire la droga era tuo e quindi già lo sai... o pagate, o pagate!”

I messaggi di Giuseppe Romeo a Super sono ancora più drammatici, in lingua spagnola: “Super, tengo el primo mio en manos de esa gente… Tengo mio cugino in mano a quella gente (i Serbi)… Non mi fare prendere brutte decisioni contro la tua gente che ho in mano io… Ascoltami per l’amor di Dio, sei padre come me. Ho il mio sangue in mano a quei serbi in Belgio... Io voglio la testa di quei figli di puttana che hanno detto che la droga era uscita… Super! Te la sei andata a cercare! Ti è piaciuto prendere i soldi da me ma credi che non pagherò 100mila euro per ucciderti?.. Figlio di puttana, ti faccio vedere io se fai le vacanze con i miei soldi, fottendomi. Uomo di merda e senza onore, domani ti fotto io la vita!.. Prendi i soldi ora e portali ai miei uomini. Non un minuto in più, Super, perché io prima cavo gli occhi ai tuoi ragazzi e poi passo a te.”

Quattro mesi di trattative e minacce incrociate, poi Romeo ottiene il pagamento di oltre 400mila dollari americani e rilascia l’ostaggio che i suoi uomini tenevano prigioniero. Decisivo per chiudere la faccenda è stato presumibilmente l’invio di alcune foto mandate da Romeo oltreoceano. Dicono gli atti che si trattava di una testa decapitata con la scritta GT (soprannome di uno dei fornitori della droga) stampata in fronte, e di due mani mozzate.

A chi appartenessero, forse ce lo dirà il processo.

 

Paolo Bonacini

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