L’inchiesta e poi il processo Aemilia hanno rappresentato per gran parte del tessuto sociale del nostro territorio regionale una sorta di “perdita dell’innocenza”: la presa d’atto, definitivamente certificata nel 2022 dalla seconda sezione penale della Corte di Cassazione, che in Emilia-Romagna esisteva una associazione criminale di stampo mafioso “dotata di autonoma capacità operativa, idonea ad esprimere una localizzata forza di intimidazione” e alla quale il ceto imprenditoriale sano (o presunto tale…) non solo non ha saputo opporsi, ma spesso ha spianato il terreno con “comportamenti di interessata tolleranza, sfociati talvolta in un consapevole ricorso alla forza della cosca” (i corsivi sono ripresi alla lettera dalla pronuncia della Cassazione).
I 220 imputati, le 195 udienze processuali, gli oltre mille anni di carcere complessivamente comminati con sentenza definitiva e relativi al processo Aemilia sono i numeri che certificano come da tempo la nostra regione non fosse più soltanto terra occasionalmente “infiltrata” dalle consorterie criminali (come da larga parte dell’opinione pubblica erroneamente ritenuto), ma “distretto di mafia” a tutti gli effetti, per usare le parole del Procuratore generale Lucia Musti.
Perdita dell’innocenza per gran parte del tessuto sociale emiliano-romagnolo, si diceva, ma non certo per noi, per la Cgil, per le sue categorie, che già ben prima del 2015 avevano la percezione di un vasto inquinamento di molti nostri settori produttivi che aveva il suo punto di emersione in diffuse pratiche di illegalità o irregolarità nella gestione di rapporti di lavoro, oppure nell’impossibilità del sindacato di accedere all’interlocuzione con i lavoratori, oppure ancora nel sistematico ricorso a distorsioni fiscali collocabili ben oltre la soglia della disinvoltura: fenomeni di per sé non indicativi con certezza di presenza e ramificazione della criminalità organizzata, ma spesso “spie” affidabili di fenomeni criminosi più ampi e più profondi.
La stessa capillarità sul territorio, la stessa conoscenza del tessuto produttivo, la stessa capacità dei nostri funzionari e delegati di essere “sentinelle” diffuse ci hanno poi consentito di affermare con ragionevole certezza – a processo Aemilia ancora in corso – che con il pur rigoroso lavoro svolto su quel filone dai giudici e dalla Procura Distrettuale Antimafia non sarebbe finito nulla, che anzi il velo che Aemilia stava squarciando rappresentava soltanto la punta dell’iceberg, in cui larga parte del diffuso radicamento delle organizzazioni di stampo mafioso (in particolare ma non solo ‘ndranghetista) in Emilia-Romagna rimaneva ancora sommerso. E puntualmente le successive inchieste e i successivi processi, da “Grimilde” a “Perseverance”, da “Stige” a “Radici”, hanno confermato la motivata impressione che territori e categorie ci rappresentavano.
Ancora oggi è necessario rinnovare e rafforzare il nostro invito a non abbassare la guardia, anzi a tenerla più alta possibile. Come prassi e letteratura si incaricano di dimostrare, crisi ed emergenze non indeboliscono, anzi rafforzano le organizzazioni criminali e la loro capacità di penetrazione, a maggior ragione se la vocazione di quelle organizzazioni è, come da noi, spiccatamente economica o economico-finanziaria e offre soluzioni spicce a chi incontra difficoltà a stare sul mercato o a disporre di liquidità. E, se ci pensiamo, il nostro territorio regionale negli ultimi tre anni ha dovuto far fronte a tre gravi emergenze, due globali e una locale: prima la pandemia, poi gli effetti sulla nostra economia del conflitto russo-ucraino e ora l’alluvione da crisi climatica che ha colpito in particolare la Romagna e una parte consistente del territorio bolognese (ma che avrà effetti purtroppo importanti sulla tenuta economica dell’intera regione).
L’ultima delle tre gravi emergenze è in questo momento la più acuta e impone alcune riflessioni supplementari. E’ evidente che un evento atmosferico in grado di causare quasi 9 miliardi di danni ha la capacità di generare difficoltà di lungo periodo nel tessuto sociale e produttivo dei territori colpiti: frane che hanno ridisegnato intere porzioni di Appennino, strade e vie di comunicazione tuttora interrotte, settori produttivi (in particolare quello primario) che impiegheranno mesi o forse anni prima di tornare alle condizioni precedenti l’alluvione; senza contare i danni materiali alle abitazioni private e alle imprese.
Un quadro di difficoltà decisamente appetibili per le consorterie criminali, con la duplice prospettiva sia di affacciarsi alla partita della ricostruzione sia di offrire ancore di salvataggio a imprese e imprenditori in difficoltà (e forse anche a lavoratori: pensiamo ai tanti, soprattutto stranieri, impiegati nelle lavorazioni stagionali agricole della Romagna e oggi in gran parte appiedati).
Per questo fin dall’inizio abbiamo rivendicato sul Tavolo del Patto per il lavoro e per il clima – che è anche sempre, ricordiamolo, patto per la legalità – la definizione di un Piano per una ricostruzione giusta e sostenibile dal punto di vista sociale e ambientale e la definizione di un Protocollo per la legalità e la qualità del lavoro nella ricostruzione e nello smaltimento dei rifiuti, sul modello che già funzionò in occasione del terremoto del 2012.
Le stesse richieste le abbiamo estese a chiare lettere al Commissario straordinario Figliuolo nelle due occasioni in cui, finora, abbiamo potuto interloquire con lui.
Nella fase della ricostruzione occorre garantire un sistema di regole condivise sia per i lavori pubblici (centralizzazione delle committenze, criteri di aggiudicazione degli appalti, applicazione dei contratti sottoscritti dai sindacati comparativamente più rappresentativi, limiti ai subappalti e al subappalto a cascata, utilizzo obbligatorio di elenchi di merito e white list, applicazione del Durc e del Durc di congruità) sia nei lavori privati (condizionalità per l’accesso alle risorse pubbliche legate all’applicazione delle linee guida per i controlli antimafia, applicazione dei CCNL corretti e obbligo di iscrizione alla cassa edile, diritto di accesso ai cantieri per il sindacato, oltre a quanto già detto sopra in tema di white list e Durc). Occorre poi prevedere sistemi di monitoraggio degli appalti e garantire la piena operatività di una struttura sul modello del Gruppo Interforze Ricostruzione Emilia-Romagna che diede ottima prova nel post-sisma.
Se poi vogliamo prevenire il rischio che una parte di mondo del lavoro molto fragile e trovatasi improvvisamente senza lavoro finisca a sua volta preda di fenomeni di sfruttamento e caporalato, quando non direttamente nel giro della manovalanza a disposizione delle diverse mafie insediate sul nostro territorio, occorre che gli avventizi agricoli siano reimpiegati nelle attività di messa in sicurezza e ripristino del territorio e servono affidamenti molto precisi con le associazioni degli imprenditori agricoli affinché in uscita dall’emergenza vengano mantenuti i piani colturali, evitando il passaggio da colture ad alta intensità di manodopera (come gran parte di quelle romagnole) a colture a bassa intensità di manodopera.
Dunque, un insieme di affidamenti anche complessi che però purtroppo, almeno fino ad oggi, difettano di un presupposto indispensabile: l’adeguatezza delle risorse pubbliche.
Le risorse finora appostate dal Governo, previste nei due decreti legge d’emergenza poi unificati e convertiti nella Legge 100 del 31 luglio 2023, e le ulteriori poche risorse aggiunte con il decreto “balneare” di agosto, non arrivano nemmeno alla metà di quanto necessario (8,8 miliardi secondo le stime della Regione, 8,5 miliardi secondo le stime che lo stesso Governo italiano ha consegnato all’UE per accedere ai fondi europei) per assicurare certezza della ricostruzione e risarcimenti dei danni subiti dalle famiglie e dalle imprese: a voler essere precisi, non coprono neppure per intero le necessità stimate (circa 4,3 miliardi) per ripristinare strade, ponti, strutture e infrastrutture pubbliche. Con l’ovvia conseguenza che per i ristori ai privati e in particolare alle famiglie mancano all’appello almeno 3,5 miliardi, i primi quattrini rischiano di arrivare nel 2024 e di essere poco più che simbolici rispetto alle reali necessità. Lo stesso Commissario straordinario, costretto a operare in questa cornice di scarsità di risorse e con una struttura commissariale numericamente insufficiente, ha potuto garantire che entro i prossimi due anni si potranno affrontare e risolvere, oltre alle “somme urgenze” (spese già sostenute per la ricostruzione pubblica e non ancora rimborsate) solo le ulteriori “urgenti necessità” per un totale di circa 6.000 interventi.
I primi a patire le conseguenze di questa “apatia” del Governo saranno le fasce più fragili della popolazione, i lavoratori e i pensionati poveri; fatto ancor più odioso se vi si aggiunge il sospetto di un utilizzo strumentale e “politico” nel senso deteriore del termine di tutta la partita della ricostruzione e dei risarcimenti.
Primo presupposto per affermare la legalità nella gestione del post-alluvione, ed evitare che si consolidi ulteriormente la vocazione della nostra regione ad essere “distretto di mafia”, è dunque l’adeguatezza delle risorse messe a disposizione dallo Stato ed è ciò che fin da subito abbiamo rivendicato insieme a Cisl e Uil e a tante istituzioni del territorio: pensare che da questa catastrofe ci si possa risollevare “con i fichi secchi” e lasciare quasi completamente scoperta tutta la parte dei ristori ai privati vuol dire invitare indirettamente sia il sistema pubblico sia le parti private a rivolgersi a chi offre servizi accettabili a prezzi stracciati, con il rischio che dietro questo binomio si celino, nella migliore delle ipotesi, imprenditori privi di scrupoli, nella peggiore, direttamente le consorterie criminali. Su questo, inutile girarci intorno, è in capo al Governo la responsabilità primaria. Il quale Governo non solo non sembra intenzionato a stanziare le ulteriori consistenti risorse necessarie, ma sul piano della legalità è decisamente partito con il piede sbagliato, inserendo nella Legge n. 100 di conversione l’art. 12-ter (verifiche antimafia), in virtù del quale, in buona sostanza, fino al prossimo 31 dicembre per le imprese aventi sede legale od operativa nel cratere dell’alluvione ricorre sempre il caso di urgenza previsto dall’art. 92 c. 3 del Decreto legislativo 159/2011, e pertanto potranno fare richiesta di contributi, sovvenzioni, finanziamenti, prestiti o agevolazioni (e le pubbliche amministrazioni potranno concederli) anche in assenza dell’informazione antimafia.
Anche per correggere questo approccio pericoloso il secondo presupposto per affermare la legalità nella gestione del post-alluvione è, come già si diceva, l’approntamento e poi la puntuale applicazione di uno specifico Protocollo per la legalità e la qualità del lavoro nella ricostruzione e nello smaltimento dei rifiuti, che dialoghi e si intrecci con i diversi strumenti già operativi a livello regionale.
Andranno poi attivati specifici tavoli di monitoraggio in ogni singolo territorio provinciale, partendo dal presupposto che proprio a quel livello è più facile cogliere quei fenomeni di illegalità e irregolarità, talvolta seri indicatori di inquinamento ad opera della criminalità organizzata, che vanno contrastati attraverso le opportune reti istituzionali e presidi operativi.
Terzo e ultimo presupposto per affermare la legalità nella gestione del post-alluvione è la promozione di una consapevolezza diffusa che la salvaguardia dell’economia legale, in una prova così difficile per il nostro territorio, deve essere patrimonio di tutti. Lo diciamo perché questo presupposto, apparentemente il più scontato, è invece ancora in buona parte da acquisire. C’è a tutt’oggi, anche in questa regione, una parte del tessuto imprenditoriale e di chi a quel tessuto offre rappresentanza, servizi e consulenze che ritiene che il contrasto ai tentativi di infiltrazione criminosa nelle attività economiche non sia affar proprio: nulla di più sbagliato, perché è proprio questo atteggiamento da “Aventino” che favorisce il prender piede di quell’imprenditoria “amorale” (o in alcuni casi scopertamente “immorale”) che – come plasticamente rappresentato dalla sentenza della Cassazione conclusiva del processo Aemilia - ha ampiamente favorito il dilagare delle mafie nel nostro territorio. Del resto, se illegalità e criminalità organizzata danneggiano il lavoro e i lavoratori, è pur vero che danneggiano anche i tanti imprenditori onesti costretti a subire la peggior forma di concorrenza sleale, che è appunto la concorrenza illegale.
Come diciamo spesso, noi ci occupiamo di legalità perché siamo sindacalisti. Sarebbe quantomai necessario che tutte le parti sociali della nostra regione si occupassero di legalità in quanto auspicabili costruttrici di un’economia sana, trasparente e solidale.
Massimo Bussandri segretario generale Cgil Emilia Romagna